Focus On_ Marketing sensoriale e neuromarketing: quando la mente condiziona i nostri acquisti.

Al giorno d’oggi è sempre più difficile per le aziende produttrici di beni riuscire ad attrarre l’attenzione e l’interesse del consumatore nei confronti dei prodotti che vengono immessi sul mercato.

Questo accade perché ormai, a livello di comunicazione pubblicitaria, tutti noi siamo continuamente e costantemente bombardati da messaggi, molto spesso troppo forti e diretti, che finiscono per “accecarci” e ciò ci fa diventare in qualche modo refrattari al loro messaggio.

Per far fronte a questo problema crescente, le aziende hanno dovuto trovare altre modalità per “colpire al centro” il consumatore – bersaglio. E una di queste, tra le più recenti, è la stimolazione dei cinque sensi, con l’obiettivo di suscitare nel cliente nuove sensazioni ed emozioni, che poi si vanno a ripercuotere positivamente sul comportamento d’acquisto.

La vista è il senso che più di tutti è stato (troppo) sfruttato, e quindi l’attenzione si è spostata sugli altri quattro, che possono allo stesso modo suscitare forti reazioni a livello emotivo.

E così sempre più nei punti vendita (non solo alimentari ben inteso) si cerca di mettere in atto questa “strategia sensoriale” che riguarda essenzialmente tutta una serie di accorgimenti, adeguatamente pianificati a priori, che rendono l’ambiente più gradevole, attraente e stimolante per il consumatore.

Alcuni esempi interessanti possono riguardare la stimolazione dell’udito e quindi la gestione della diffusione della musica all’interno dei punti vendita.

Ci sono due diverse tipologie di format in questo senso: la music in store e la brand radio.

Nel primo caso si fa riferimento alla riproduzione di brani musicali all’interno del negozio che non sono lasciati, come spesso accade, ai gusti personali dei commessi, ma vengono scelti e tarati sulla base della clientela.

La brand radio è nata invece sulla scia della diffusione degli outlet e centri commerciali, spazi molto grandi all’interno dei quali viene sempre più spesso diffusa la musica che proviene appunto da un’emittente radiofonica “ad hoc”, propria del negozio o del marchio (pensiamo a Radio McDonald’s) che è così in grado di gestirne i contenuti, nonché i messaggi pubblicitari.

Questa tecnica di comunicazione risulta essere efficace sotto almeno tre aspetti: il tempo di permanenza dei clienti nel punto vendita, la percezione del brand e l’influenza sul livello di acquisti. L’obiettivo è fare in modo che chi entra nel punto vendita trovi un ambiente gradevole e che risponda in qualche modo alle sue aspettative nei confronti del marchio.

L’elemento sul quale si va ad agire è il ritmo musicale: brani più lenti e rilassanti possono conciliare la permanenza nel negozio e condurre ad un tipo di shopping più “tranquillo” e ragionato; al contrario, la scelta di brani ritmati viene effettuata in punti vendita che mirano ad una minor permanenza del cliente e ad un suo maggior ricambio. Un esempio in questo senso è rappresentato dal marchio Abercrombie & Fitch che, rivolgendosi ad un pubblico giovane, utilizza nei suoi store musica dance ad un volume piuttosto elevato, per dissuadere allo stesso tempo le persone più adulte dall’entrarvi.

Tra i marchi che hanno puntato sulla messa in atto, all’interno dei propri punti vendita, di tecniche di marketing sensoriale/esperienziale possiamo citare le profumerie Séphora (ambientate in maniera tale da suscitare la stimolazione multisensoriale) e la catena francese Nature & Découverte (pioniere in tal senso) che vende prodotti legati al mondo della natura ed utilizza tecniche di gestione del punto vendita innovative proprio per proporre un’esperienza di shopping sempre più appagante.

Il fattore che rappresenta il punto focale di queste strategie è la mente del consumatore, divisa nella sua parte razionale e in quella emotiva. Molto spesso noi ci convinciamo che le scelte di acquisto che facciamo sono guidate dalla razionalità, mentre nella maggior parte dei casi finiamo per “cedere” alle lusinghe della componente emotiva, presi dalle sensazioni ed emozioni che sentiamo crescere in noi.

E proprio per cercare di “leggere” nella mente del consumatore, è nato nei primi anni 2000 il neuromarketing, un connubio (forse un po’ forzoso) tra neuroscienze e marketing, con l’obiettivo di capire cosa davvero le persone desiderano e da quali prodotti sono maggiormente attratte.

Così, utilizzando gli stessi macchinari impiegati in ambito ospedaliero (TAC, Risonanza Magnetica, Elettrocardiogramma e altri) i soggetti volontari vengono sottoposti ad esami per vedere quali sono le aree del cervello che si attivano alla ricezione di determinati stimoli sensoriali (o anche quali sono le reazioni dell’organismo a livello biometrico).

Gli studiosi ritengono che, in questo modo, sia possibile venire a conoscenza in anticipo di quali sono i veri desideri del consumatore, riuscendo a produrre ed immettere sul mercato solo i prodotti che effettivamente saranno acquistati. Così facendo si ridurrebbero i costi legati a prodotti lanciati sul mercato e ritirati poco tempo dopo, perché non hanno avuto il successo sperato.

Certo, a livello teorico nulla da dire. Ma riflettiamo un attimo: se troviamo sugli scaffali solo e soltanto prodotti che siamo sicuri di voler acquistare, che fine fanno la concorrenza tra i marchi e la libertà di scelta di noi consumatori? Ci troveremmo a comperare solo un prodotto per categoria merceologica, dal momento che dagli studi è emerso che ai soggetti sottoposti a TAC o risonanza piaceva quel modello di scarpa da ginnastica piuttosto che quello della diretta concorrente.

E nel futuro?

Di marketing sensoriale (o esperienziale) probabilmente se ne sentirà parlare ancora per un po’, dal momento che rappresenta sempre più una modalità che le aziende hanno per sperare di convincere la clientela ad acquistare, soprattutto nella situazione economica attuale.

Per quanto riguarda il neuromarketing invece, i dubbi sono maggiori. Quelli di natura scientifica riguardano la “bontà” dei risultati di queste scansioni cerebrali (dal momento che nulla è stato scientificamente provato); quelli etici fanno riferimento alla distorsione del concetto di privacy della persona, ed alla paura di un uso indiscriminato delle informazioni raccolte per usi di propaganda o indottrinamento.

Dubbi e paure sicuramente condivisibili. Ci sono ancora troppi “lati oscuri” sull’argomento. Certo, dal punto di vista tecnico non c’è probabilmente molto da chiarire, le tecniche sono quelle. Però è il risvolto umano e sociale che preoccupa di più. Siamo davvero arrivati a questo? Abbiamo davvero bisogno di farci “leggere il cervello” solo per il piacere di trovare sullo scaffale esattamente il prodotto che tanto desideriamo?

O sarebbe forse meglio ritornare ad un sistema nel quale si vende ciò che si produce e non bisogna a tutti i costi produrre ciò che (si) vende?

SF

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